tra me e me, che mi sono di ottima compagnia

Questo periodo mi sta insegnando tanto. Ma proprio tanto. Uscita dalla porta principale (nel senso che è stata una mia scelta e non una scelta obbligata) della zona comfort del posto fisso, dello stipendio garantito, della routine (anche se poi magari routine non è), dei rapporti collaudati e degli schemi consolidati, mi trovo a osservare, riflettere, smuovere e valutare proprio tantarobba.

Mi accorgo piano piano di dare un valore diverso al mio tempo, alle mie competenze, ai miei talenti, ai miei “difetti”, ai miei modi di pormi. Faticoso, eh. Perché quasi ogni giorno mi trovo di fronte a una scelta che cammina veloce su due zampette che si chiamano rispetto e responsabilità personale.

Il mio tempo, ad esempio, oggi è importante, ha un peso specifico diverso da prima. Proprio nel senso che assume un valore diverso. Perché a seconda di come lo uso sarò riuscita, a fine giornata, ad avere consegnato ciò che devo aver consegnato, ad avere sistemato ciò che era necessario sistemare, oppure no, ad esempio. E magari aver deciso che quella cosa che dovevo fare era meno importante di un’altra, che invece ho voluto fare. Quel valore sono solo io a darlo. Ho la responsabilità del mio tempo.

Per le competenze uguale: ho la responsabilità di dare un valore alle mie competenze. Opinabile, personale, discutibile ma sono le mie competenze, sono io. E anche non darlo, un valore, in fondo, è pesarle, e dire valgono questo, valgono niente, le mie competenze.

Io ho detto spesso ma sì cosa vuoi che sia. Beh anche basta. Esce con un sorriso, esce bello forte, il mio anche basta, un pezzetto alla volta. Esce quando  pronto. Quando è tempo. Ma esce, e lo fa sempre più spesso. Oggi voglio sentire le radici del mio tempo e delle mie competenze. E non mi interessa che siano gramegna, erbetta, fiorellino, noce o quercia. Sono le mie radici. Sono le cose che mi tengono in piedi. Che mi permettono di essere capace di flettermi e seguire il vento, senza sradicarmi, di seguire la corrente senza spingere, senza costringere. Vanno onorate.

Il bello è che in questa valorizzazione diversa di tempo competenze talenti e dintorni, come se ci fossero due piatti della bilancia, emerge sempre più, dall’altra parte, la grande abbondanza della condivisione, la grande ricchezza del mettere assieme, in comune, del mettersi a disposizione. Che solo apparentemente è un paradosso. Noto (ancora con un po’ di stupore e meraviglia, lo ammetto) che più io do valore al mio tempo e alle mie competenze e più la condivisione è ricca e prodiga e fruttuosa.

Mai come in questo periodo trovo persone con le quali condividere progetti e sogni che respirano forte. Che creano bellezza. Che alimentano bellezza. Che rendono felici dentro.

E in fondo mi viene in mente quando dicevo che nei rapporti vanno divisi i fatti dalle emozioni. Volersi bene è anche dire no, dire basta. Perché davvero, solo così, i sì possono esplodere.

Un anno fa me ne sono uscita dalla porta principale della zona comfort in cerca di bellezza. Che come progetto non sembrava avere grandi radici. Detta così. E invece le sto proprio trovando, le mie radici, e assieme a loro, quel progetto sta diventando grande. Anche se a volte dormo scomoda. Io questa felicità così palpabile da accarezzare, così vicina, non l’ho sentita mai.

incontri

Arriva, improvviso, un profumo che sa di menta e mare. Di pelle che sa di menta e mare. Sa di fresco. Contrasta, un po’, con il freddo della pancia. Contratta. Un tumulto protetto da una lastra di ghiaccio. E dietro, un fuoco che si sta divorando aria e spazio. Pensieri. Invade. Ogni tanto una lingua di fuoco arriva su, diretta, dalla spina dorsale alla nuca, agli occhi, alla voce, alle mani. Fuoco e lava. E sfonda il ghiaccio. Si espande a onde. Anche dalla pancia. Un vento pieno di spilli. Una tempesta improvvisa, di sabbia che punge e penetra nei pori. Eppoi le mani. Che sono morbide. Ma a tratti si frammentano come in un quadro cubista e ne senti gli spigoli. E gli occhi. Bisturi affilati e piume bianche. La voce tradisce a volte microscopici brividi. Nei silenzi. Soprattutto. Sono pieni di brividi, quei silenzi. Piccole spirali nere dove si rifugia la voce quando non ha parole quando non le vuole trovar quando non le vuole ascoltare quando non ne regge lo sguardo. Quando non ne regge il dolore. Per poi tornare. E dietro, dentro, in fondo, al di là di spirali e ghiaccio, di bisturi e spilli, quel vento caldo e quell’onda che accarezza e abbraccia. Lontana.

mare in collina

mi accorgo d’improvviso che qui le ore sanno giá d’autunno. mi godo il profumo di legna tagliata, preparata per stufe e camini. un po’ meno il rumore delle motoseghe che iniziano presto il loro concerto e si fanno spazio sostituendosi alle cicale. è comunque estate, con villeggianti che riempiono i parcheggi e trasformano il centro in un formicaio colorato. e seconde case che aprono gli scuri e danno aria alla biancheria rimasta prigioniera per quasi un anno.

è un’estate da formica operosa, quella della montagna. senza fronzoli e senza luna park. indossa abiti comodi e scarpe grosse. sa di fatica e mani spesse. insegna ad avere cura. ad essere presenti. maestra preziosa, la montagna. e io allieva indisciplinata e curiosa, sbaglio ritmi e tempi, ma mi espando seguendo le linee sinuose che mi circondano. Mare mosso che si trasforma in collina.

ho liberato gli occhi

Ho liberato gli occhi. Ho alzato lo sguardo, piano. L’ho visto nello specchio. Quello dentro di me. Pulito. Trasparente. Fermo. Diciamolo, mi è piaciuto tanto quel taglio. Quello col ciuffo. Asimmetrico. Quello che in un attimo mi trasformava in luce e ombra. Mezzo viso scoperto e l’altra metà nascosta. Le due parti di me. Sbirci maliziosi e timidi, rossori improvvisi e palpitazioni che li riempivano, gli occhi. Il gioco della seduzione con la vita. Il vedo e non vedo di un’anima in bilico. L’eccomi e il fuggo di una ricerca fatta senza guardare con gli occhi, in fondo. Che usava un ciuffo per crescere e riconoscersi. Ho liberato gli occhi. Ho lasciato che cadessero a terra i ricci dove si aggrappavano si nascondevano e si strusciavano gli occhi degli altri e molti pensieri. Alcune invasioni e piccole ferite, delusioni. Ciuffo e ricci dove qualcuno si è anche perso, per un attimo. Dove mi son persa da sola, spesso. Randagia in un sentiero senza indicazioni.  Ho liberato gli occhi. Ho scoperto il viso. Mi vedo. Mi lascio vedere. Mi guardo. Mi lascio guardare. Senza trucchi.

La leggerezza

Da mia figlia imparo a ricordare la leggerezza. Che io l’ho un po’ persa per strada, diciamolo, tra le corazze e i respiri corti di qualche decennio a capire come fare, testona a non aver imparato che non serve capire ma sentire. Ossidata,come accade all’argento. Lei è la mia pezzuola che accarezzando lucida. E coccola. Lei è la mano che si fa acqua e plasma la creta. Il mio dono. Lei non molla mai. Mi ci vedo, ogni tanto, a far la voce grossa, a indossare la corazza, a dire con voce tonante chi è la grande qui. Mi ci vedo, a indossare quegli abiti non miei eppoi smetterli e posarli e dire ok dai recitavo l’ho fatto tante volte quel ruolo ogni tanto prende vita da solo ma ricordamelo tu, che copione stiamo seguendo adesso?
Io lo so che lei è il mio dono e la mia guida. Per questo. Poi ci sono le cose che le posso insegnare io. Confini. Fiducia. Rispetto. Amore. Certo, non è un gioco a perdere questo, non è una commedia senza palcoscenico. Però io la guardo e lo vedo che lei non molla mai. E non è la prima volta che lo dico.
E’ che la leggerezza è importante. Fa da cardine e da livella. Divide, con un buffetto, l’essenziale dal ghirigoro. Lo vedo eh. Lei mi rende migliore. Mi aiuta a togliere le croste, le maschere, le armature. A volte sento la sua fatica, oltre alla mia. E la grande bellezza. Voglio dire ci vuole una costanza pazzesca a tornare sempre a riprenerti per mano quando ti fermi e ti distrai, a ricordarti cosa ti sei scordato, a riportarti sulla tua strada. Ci vuole amore.

Io non mi vergogno a dire che è faticosissimo avere un figlio e fare la mamma (o il papà). Non te lo insegna nessuno. Non esiste libretto d’istruzioni, non esiste una chat che risolve i problemi, non esiste sfera magica. Io non mi vergogno a dire che a volte vorrei essere single e libera e poter sbagliare e poter rischiare e poter scappare e farmi le serate e non pensare a niente. Eppoi mi fermo. E in fondo mi rendo conto che è un dono grande poter pensare di voler scappare, di voler sparire, di sentirsi una schifezza, di voler fare serate di non pensare a niente e potermi fermare in quegli occhi in quella mano in quelle frasi in quella caparbietà che non molla mai. E non farlo, di scappare, di fuggire. E’ il dono che ti regala chi ti guarda e stringendo la tua mano e cercandoti con gli occhi dice “io mi fido di te”. E’ il dono di chi ti fa crescere, crescendo con te. Con leggerezza. E te la ricorda pure se la scordi ma non perché ti vuole diversa.
E’ che ti vuole felice.

e ho smesso

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Eppoi ho smesso.

Ho smesso di chiedermi perché di voler capire per forza di voler far capire per forza. Ho smesso di perdere tempo e vita. Non significa che non parlo più che non racconto più che non ti guardo più negli occhi e inizio con sai, a me accadeva che. La differenza è la distanza. Che non è lontananza. Il distacco. Racconto la mia esperienza i miei pensieri le mie conquiste e racconto anche quello che penso di aver compreso quello che mi è stato utile quello che magari mi è risuonato ascoltando. La distanza è il rispetto che mi fa fermare sulla soglia della tua anima. Senza entrare dicendo ohhh qui non va bene niente adesso cambiamo questo quello quell’altro i colori alle pareti il divano ad angolo la credenza fuori moda e le luci a soffitto. Con qualche scivolata, qualche eccesso, qualche sbirciata ma quello spazio che divide la mia convinzione e il tuo esistere al di là delle mie convinzioni è uno spazio fisico. E fa la differenza. Ho smesso di voler stabilire il giusto e lo sbagliato e mi soffermo su una vibrazione nuova che assomiglia tanto a una domanda morbida e difficile “mi fa stare bene?”. Ho smesso di prendere posizione, spesso osservo. Scelgo per me, ma non mi metto a discutere le scelte altrui.

Ho smesso di voler essere, inconsapevolmente, Dio. E in questo spazio che spesso è fatto di silenzio, paradossalmente, ritrovo la sua voce.

per via di levare

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Sto imparando.

Sto imparando a cogliere la differenza tra il necessario e il superfluo. Non è così scontato. Per molto tempo mi sono aggrappata a libri, oggetti, ricordi, emozioni, difese, castelli in aria, ipotesi, aspettative. Ogni scatolone che apro diventa occasione per passare al setaccio radici e ali, polvere di piombo e oro, passato e presente.

L’armadio si sta svuotando di abiti che non mi assomigliano più. Assieme a quei tagli di tessuto se ne vanno sghembi episodi e maschere, scene di un teatro di provincia con un monologo interrotto da qualche applauso e un po’ di rumore.

Dalla testa se ne vanno, lentamente, con qualche resistenza, la fretta e l’urgenza del  tuttosubito, il bisogno di sicurezze e l’apparente certezza del domani, sostituiti da un sorriso che sa di fiducia e da occhi che prendono per mano stanchezza a gioia e stupore.

Mi sento tornare all’origine di una genuinità scanzonata e sbarazzina, indifferente agli abbinamenti stilosi che pure son stati parte della mia educazione. Si vive serenamente anche senza scarpe e borse accompagnate, anzi, si respira un’aria di aria di campo e di corse a perdifiato senza gli orpelli bon ton e con i piatti scompagnati.

Mi rendo conto, un giorno alla volta, grazie a incontri meravigliosi, esperienze amorevoli, abbracci forti e sguardi dolci e accoglienti che l’armonia che cercavo non sta nei piatti accoppiati alla tovaglia che è in nuance alla cucina che è abbinata ai bicchieri e che rispecchia pensieri composti. Ordinati. Magari a volte sì, ma la differenza sta nel come, non nel cosa.

E il come, per me, è la condivisione, che ha il passo lieve del cuore.

La sento eh la frizione tra forma e sostanza, tra prima e dopo, come ad essere sospesi su un ponte di corda con due sponde che portano in due mondi diversi. E io lì che posso scegliere. E portarmi semi di una sponda nell’altra, ma scegliendo, sempre, da che parte stare.

Mi sento vivere dentro a un disegno di un bimbo in età prescolare. Grandi occhi, grandi cuori, gambe lunghe, sintesi, sostanza. E colori. Tanti colori. E profumi. Tanti, tantissimi profumi.

Io lo sapevo che aveva ragione lui. Ma oggi, ogni oggi che diventa ieri e respiri esperienza dubbi soluzioni attese sospiri paure risate, sento forte il marmo e sento l’anima che ci sta dentro. la sento che vuole respirare e saltare e correre e respirare.

“La scultura si fa per via di levare” diceva Michelangelo Buonarroti. Per me parlava anche della vita.

Quellalà

Il gatto dalle orecchie rosa, pigramente allungato sul davanzale della finestra a farsi fare i grattini dal sole, fissò la figura che si avvicinava e si stiracchiò infastidito. Non gli piaceva quella tipa. Quellalà arrivava, e lui lo sapeva, ormai lo aveva capito, iniziava il solito copione noioso. Grandi sorrisi, grandi abbracci poi Quellalà  iniziava a sibilare maldicenze e l’energia della stanza diventava pesante. Gli toccava schivare le parole affilate e precise come un bisturi nelle mani di un chirurgo con una vita di esperienza addosso che Quellalà lanciava con disinvoltura. Ogni tanto la guardava, socchiudendo gli occhi gialli.
“Per me si droga”, pensò.

dove si tiene il cuore

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Siamo qui, sotto questo gazebo che sembra estate e vacanza e invece siamo in città, siamo qui che ridiamo mangiamo godiamo il bionda show che quando le ricapita un’occasione così, protagonista quasi assoluta di una serata quasi a sorpresa perché hai voglia a programmare esiste sempre il momento giusto perché le cose accadano. Ed è quando accadono davvero. E mi fa sorridere un sacco questa verità assoluta, questo assioma che si veste con gli abiti modesti dell’apparente  banalità.

Mi arriva forte la delicatezza e l’attenzione che rivolge alle persone che ha davanti. Mi incantano le persone così. Sguardo e voce accarezzano, accolgono, sorridono. E contemporaneamente esplorano, sondano, osservano. Ecco. E’ una persona che ti guarda davvero. E non lo fa con giudizio. Lo fa con attenzione. Uno sguardo pieno che non è solo occhi, macché, è lì che coinvolge tutti i pori e i sensi. E può diventare una lama. Ma è capace di essere abbraccio.  Forse ci nasce, abbraccio.

E lo so che ci sta dietro anche tutto il bagaglio di esperienza e codici e schemi e dolore, anche. Elaborazioni. Conquiste. Come arrivare a sentire la vita davvero nelle mani. E ci puoi tenere il cuore. Tra le mani. Perché sai che nessuno a quel punto te lo potrà portare via. E quindi riesci a vedere anche il cuore nelle mani degli altri. I cuori feriti, quelli rubati, quelli duri e quelli che non ci sono. I cuori altrove.

Ecco. La magia è trovare una persona che guarda dove hai il cuore. Come sta. Come lo tratti. Come ti tratti. E non vuole insegnarti nulla. Ma in quello sguardo ti fa vedere, se vuole, il suo cuore tra le mani.